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Cibele: La Dea senza volto che viene dalla montagna - Trance, pietre nere e potere sacro. Viaggio nella più arcana delle Madri divine.

  • Immagine del redattore: Elìa
    Elìa
  • 8 lug
  • Tempo di lettura: 9 min

Aggiornamento: 7 giorni fa





Il nome che vibra: chi è Cibele


 

Nominare Cibele non è semplice. Questo nome, più che  un’etichetta identitaria, rispecchia un’onda lunga che attraversa secoli, lingue, geografie. E' Kubileya, Kubeleya, Kybele, Cibelis, Cybele — e ogni versione è il tentativo, attuato nelle diverse culture che l'hanno ospitata, di addomesticare una figura che, per sua natura, rifiuta la forma stabile.


I Greci la chiamavano Μήτηρ Ὀρεία — Madre della Montagna. Gli anatolici Frigi, portatori del culto originario, la veneravano come Potnia theron, la “Signora delle bestie selvagge”. Non è mai stata una tenera madre né una divinità domestica. Cibele è antica, crudele, grandiosa. La sua iconografia più arcaica non raffigura un volto umano ma una pietra nera. Cibele, prima ancora che divinità, era presenza. Presenza tellurica, irrefrenabile, assorbente.


Il nome stesso, come suggerisce il simbolista René Guénon, è strettamente connesso al concetto di montagna. In Simboli della Scienza Sacra (cap. 48), infatti, l'autore scrive:


Il nome Cibele si ricollega direttamente all’ebraico Gebal e all’arabo Jabal, ovvero ‘montagna’ [...] Cibele è propriamente la dea della montagna, ed è assai notevole il fatto che, per questo significato, il suo nome è l’esatto equivalente di quello di Parvati nella tradizione indù.

Questo non è un dettaglio linguistico: è la chiave per leggere la sua essenza. Cibele non scende in pianura, non entra nei templi cittadini se non dopo esservi stata trasportata in processioni rituali intrise di sangue ed atti violenti. Vive in alto. Si mostra solo a chi sale. Ed è in cima che le sue sacerdotesse — e i suoi sacerdoti evirati, i Galli o Coribanti — celebrano il suo mistero: quello di una maternità che non genera ma inghiotte. Una Madre che non allatta, ma richiama.


In tale  dimensione originaria, Cibele non ha volto umano né forma femminile: è la montagna stessa, la pietra, il masso nero che custodisce il fuoco primordiale. Come accadrà secoli dopo con El Gabal, anche il suo culto si manifesta attraverso un oggetto inerte, privo di sembianza, ma carico di potere.


Ecco allora che, prima ancora di essere rappresentata, Cibele è sentita: nel battito del  tamburo, nello strepito dei piatti, nel fremito della trance. Un nome che non si pronuncia: si ascolta risuonare nella terra.

 


Pietra, Madre, Trono


 

Non c’è trono per Cibele che non sia scolpito nella roccia. Il suo potere è la pietra stessa. Non rappresenta, non simboleggia: è.


Il più antico simulacro conosciuto, attribuito della Dea è, infatti, un masso nero, privo di forma, adorato sulla cima del monte Dindymon, in Frigia, nella regione dell’Anatolia centrale. Nessun volto, nessun corpo, nessuna narrazione. Solo materia. Ma non una materia qualsiasi: materia elevata, radicata al cielo attraverso la montagna. Questo punto è cruciale: la pietra, per essere sacra, deve essere alta e l’altezza la rende soglia.


Nel 204 a.C., durante la Seconda Guerra Punica, Roma chiese ai Libri Sibillini un segno per scacciare la sventura. La risposta fu chiara: “la Magna Mater deve essere chiamata dalla Frigia”. Fu così che una delegazione romana, guidata da Scipione Nasica, partì per l’Anatolia per condurre a Roma non un simulacro umano ma proprio quella pietra nera. L’evento è riportato da Tito Livio (Ab Urbe Condita, 29.10), e rappresenta un momento di svolta: il sacro aniconico, per la prima volta, entra nel cuore dell’Impero.


Questa pietra fu collocata sul Palatino, dove successivamente sorse il tempio della Magna Mater.


È la stessa collina su cui, due secoli dopo, verrà edificato l’Elagabalium, il tempio di El Gabal voluto da Eliogabalo.



Non si tratta di una coincidenza. Due culti, due pietre, due presenze irriducibili nel pantheon romano. E, in entrambi i casi, il centro non è l’immagine ma la massa: il peso, la gravità, l’impronta cosmica. Se El Gabal era il sole solidificato, Cibele è la terra che sale.


Il trono di Cibele è spesso raffigurato con leoni o leopardi ai suoi lati. Ma nella versione più arcaica non c'è trono né bestie: solo la rupe, la cava, la superficie scabra. È la Dea stessa ad essere seduta su sé medesima: il trono coincide con la divinità. In questo senso, Cibele incarna una visione primordiale e totalizzante: è insieme luogo, corpo e principio. Una topologia del sacro che si esprime attraverso la densità, la concretezza.


Non c’è luogo più adatto alla sua manifestazione che una montagna. Non c’è forma più radicale della sua teofania che una pietra nera.


Questa stessa grammatica sacra ritorna, trasfigurata, in altri culti aniconici: nei betili siro-fenici, nella Kaaba islamica, nell’Omphalos di Delfi, nel lingam di Shiva. Cibele li precede, li contiene, li anticipa. È la pietra che dà forma all’idea di divinità prima ancora che la divinità abbia un nome.


 

Sangue e battito

 


Se la pietra è la forma arcaica di Cibele, il sangue ne è la voce. Nessun altro culto antico ha mescolato con tanta intensità materia, suono e carne come quello della Magna Mater. Per celebrare la Dea, non bastava pregare o offrire doni: occorreva perdere sé stessi. Nel corpo, nel ritmo, nel dolore.


Il rito centrale si svolgeva durante il Dies Sanguinis, il “giorno del sangue”, celebrato il 24 marzo, culmine delle festività primaverili dedicate a Cibele e Attis, suo giovane, evirato, consorte. In quel giorno, la processione raggiungeva il massimo della tensione rituale. I Galli, sacerdoti del culto, entravano in uno stato di trance profonda al suono di flauti, timpani, crotali. Il battito del tamburo era ossessivo, iterativo, ipnotico.


Secondo le fonti — tra cui Luciano di Samosata (De Dea Syria), Arnobio (Adversus Gentes, VII, 32), e

Catullo (Carmen 63) — i sacerdoti, presi da furor sacer, danzavano vorticosamente fino a trafiggersi con coltelli o schegge affilate. Il sangue scorreva come offerta diretta alla Dea, suggellando un legame personale e irreversibile con lei. In alcuni casi, l'estasi raggiungeva un punto di rottura: la castrazione rituale.


Questo gesto estremo non era una mutilazione cieca ma un atto di trasfigurazione: rinunciare alla virilità per essere “posseduti” dalla Dea. La perdita del seme maschile diventava segno di fecondità spirituale. I Galli non erano né uomini né donne, ma mediatori sacri, corpi liminali attraverso cui passava il divino.


Plutarco (in Moralia, "Iside e Osiride", 377e) e Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane, II.19.4) testimoniano quanto questa ritualità fosse percepita come perturbante dalla mentalità romana: non tanto per la violenza, quanto per il suo significato simbolico. La Roma virile, centrata sull’equilibrio e sulla mascolinità disciplinata, non poteva accettare una divinità che esigeva l’estasi e la dissoluzione del corpo.


Ma il punto cruciale non è la castrazione. E' la vibrazione. Il tamburo — il tympanon — non accompagna il rito: è il rito. Il suo ritmo riproduce il battito primordiale, quello della terra, quello della placenta. È la forma sonora della montagna. Non una musica ma un richiamo. La pietra pulsa nel suono. La madre chiama attraverso il suono del  tamburo.


In questo senso, il culto di Cibele ha poco a che fare con la religione nel senso moderno del termine. Non esprime una dottrina: produce uno stato. Una metamorfosi sensoriale in cui il corpo si fa tramite. È una tecnologia del sacro.


Alcuni studiosi contemporanei — tra cui Walter Burkert (Homo Necans) e Marcel Detienne — hanno interpretato questi riti come forme arcaiche di autocostruzione identitaria attraverso la disintegrazione: non si nasce Gallo, lo si diventa. Non si serve la Dea con il pensiero ma con il sangue.


Per questo la trance e il tamburo non sono orpelli esotici. Sono strumenti di riscrittura dell’umano. Il corpo che si lacera diventa luogo sacro. La musica che stordisce riporta a casa. Il sangue versato non è punizione, è linguaggio. È il contratto con la montagna; il dialogo con il divino.


 

Roma, il Palatino e la seconda nascita


 

Quando Roma accolse Cibele, non lo fece per fede. Lo fece per necessità. Era il 204 a.C., Annibale era ancora in Italia e la Repubblica, per la prima volta, vacillava. I Libri Sibillini, oracoli ufficiali dello Stato, furono consultati. La risposta fu inequivocabile: la Magna Mater doveva essere chiamata da Pessinunte, in Frigia. Non una sacerdotessa. Non un testo sacro. La pietra stessa.


Il gesto non era solo religioso ma anche strategico; geopolitico. Chiedere una divinità straniera in tempo di crisi significava integrare il potere di un’altra civiltà dentro il proprio sistema di segni. La Roma del III secolo a.C. era ancora aperta, porosa, disposta ad assorbire elementi esterni se ciò poteva rafforzarne il destino imperiale. Ma mai prima di allora aveva accolto una divinità tanto radicale.


Il trasporto della Magna Mater fu coreografato con attenzione. Le fonti raccontano che la pietra giunse via mare, fu accolta dalla nobildonna Claudia Quinta e poi portata in processione fino al Palatino. Era, formalmente, un’integrazione ufficiale: il Senato stesso approvava l’installazione della Dea sul colle più sacro della città.


Ma Cibele non fu mai del tutto romanizzata. Diversamente da altre divinità come Iside, Serapide o Mitra, che vennero integrati con riti adattabili e culti urbani, la Magna Mater resistette. Il suo nucleo era troppo distante, troppo ostico. Non parlava latino. Non aveva volto. Non poteva essere rappresentata e non poteva essere compresa senza attraversare i dolori del corpo.


Anche le celebrazioni ufficiali, come i Ludi Megalenses di aprile, che affiancavano spettacoli teatrali e gare pubbliche, non riuscivano a mascherare l’alterità profonda del culto. I riti più intensi, come il Dies Sanguinis e la trance dei Galli, restavano non autorizzati, ma tollerati. Una zona grigia tra legalità e mistero.


E poi c’era il luogo: il Palatino. Non un tempio periferico, non un’area liminale. Ma il cuore del potere, della memoria, del diritto. Il luogo in cui Roma ebbe inizio. La scelta di collocare lì la pietra della Dea fu un atto di forza simbolica. Era come dire: Roma non è solo conquista. Roma può contenere l’Altro. Ma era vero solo in parte.


Due secoli più tardi un’altra pietra sacra, quella di El Gabal, sarà collocata nello stesso luogo, con esiti ben diversi. Se la Magna Mater fu tollerata, El Gabal venne rifiutato. Il giovane imperatore Eliogabalo fu assassinato, il suo culto smantellato.

 (qui puoi inserire il link all’articolo su Eliogabalo con un anchor tipo “Il parallelo con El Gabal, la pietra solare siriana, è illuminante: leggi l’approfondimento qui”)


Cibele, invece, rimase. Ma come una presenza sorda. Mai del tutto celebrata, mai del tutto rimossa. La sua pietra non fu distrutta ma nemmeno trasformata. Roma non poté assimilarla. Si limitò a costruirle attorno un recinto.


E quella tensione irrisolta tra integrazione e resistenza è forse la vera eredità della Dea. Non il tempio. Non le feste. Ma il fatto di essere stata accolta senza mai essere compresa. Un’origine che resta intatta. Una madre che, anche sotto le vesti latine, non smette di appartenere a un altrove.


 

Una dea per il nostro tempo (filologicamente parlando)


 

Nel mondo romano, il culto di Cibele ha attraversato i secoli senza mai fondersi del tutto con l’ordine simbolico imperiale. La sua presenza, seppur istituzionalizzata, restò eccentrica: legalmente accolta ma culturalmente disallineata. Non esiste una figura paragonabile, né per la modalità del suo culto, né per la persistenza del suo enigma.


Dopo l’editto di Teodosio del 391 d.C., che bandì i culti pagani, la pietra della Magna Mater sparì dal registro ufficiale. Ma non dalla storia. Rimase nei lessici, nelle epigrafi, nei topoi letterari e nei commentari teologici cristiani — quasi sempre con connotazioni ambivalenti: idolatria, superstizione, mistero femminile impenetrabile.


Il termine stesso di “Cibele” assunse, nel tempo, un significato duplice: da un lato rappresentò la memoria di un culto antico e ingovernabile; dall’altro fu sinonimo di un potere materno, sacro ma disordinato, caotico, associato all’eccesso. Lo si ritrova nei glossari medievali come esempio di "falsa divinità", ma anche — in testi tardo-alessandrini — come figura liminale, tra la terra e il divino.


In ambito linguistico, la radice del nome non fu dimenticata. Il collegamento etimologico tra Cibele, Gebal, Jabal (tutti legati alla nozione di "montagna") riemerge nella trattatistica simbolica rinascimentale — da Pico della Mirandola ad Agrippa di Nettesheim — in cui la Dea viene spesso riletta come figura del sapere profondo non rivelato, associata all'alchimia e ai segreti della terra.


Persino nella letteratura ottocentesca e in un certo pensiero esoterico moderno, Cibele continua a riaffiorare: non come divinità viva ma come codice. Il simbolo di qualcosa che resta anche quando viene rimosso. L’idea che la montagna, la pietra, la vibrazione della terra abbiano un cuore sacro è un’eredità che non ha mai cessato di essere trasmessa. Non alle masse ma ai sistemi di pensiero più profondi.


La figura di Cibele, perciò, non si dissolve nel tempo: si trasforma, si ritrae, assume nuovi volti. La sua forza non sta nel sincretismo ma nella resistenza semantica. Non si lascia decifrare del tutto.


Non si concede. È madre perché contiene ma non si offre. È radice perché non si mostra. E resta viva proprio perché non è mai stata completamente addomesticata.


Che cosa resta oggi di tutto questo? È una domanda che merita uno spazio dedicato. Perché il ritorno delle immagini telluriche, della trance, del suono rituale, non è solo una moda spirituale: potrebbe essere un' eco. Un richiamo.


Ed è ciò che esploreremo nel prossimo approfondimento.

 

 

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