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Eliogabalo: il dio straniero di Roma - Quando l’Impero si piegò a un dio senza volto, e la pietra nera divenne il centro del potere

  • Immagine del redattore: Elìa
    Elìa
  • 8 lug
  • Tempo di lettura: 9 min

Aggiornamento: 7 giorni fa




L’Impero e l’ospite inatteso

 

 

Nel 218 d.C., Roma è stanca. L’Impero si estende ancora su tre continenti ma le fondamenta si stanno incrinando: instabilità politica, inflazione, crisi dinastica. L’ultimo imperatore, Macrino, è stato abbattuto da un colpo di stato orchestrato da una anziana donna siriaca, Giulia Mesa, matriarca dell’antica Emesa. Il suo asso nella manica? Un ragazzo di appena quattordici anni, originario della Siria romana, educato nei riti solari di una divinità che i senatori dell'urbe non avevano mai osato nominare.


Il suo nome era Varius Avitus Bassianus. Ma passerà alla storia con il soprannome di Eliogabalo, da Elagabalus, forma latinizzata del dio cui era stato consacrato fin dalla nascita. In un colpo solo, Roma si ritrovò non solo con un imperatore adolescente, ma con un nuovo dio ufficiale — e una pietra nera da venerare nel cuore della città.


L’ascesa di Eliogabalo fu fulminea e spiazzante. Le fonti antiche — da Cassio Dione a Herodiano — lo descrivono come dissoluto, effeminato, irriverente. Ma sotto la patina di scandalo morale si nasconde qualcosa di ben più interessante: un giovane che incarnava la collisione tra due mondi religiosi. Da un lato la Roma imperiale, strutturata su un pantheon flessibile ma gerarchico, con i suoi templi marmorei e i suoi culti istituzionalizzati. Dall’altro, un Oriente spirituale in cui il sacro si manifestava in modo diverso: attraverso la luce, la pietra, il silenzio.


Eliogabalo non portò a Roma solo una nuova divinità: portò una forma diversa di intendere il divino.

Non un dio da scolpire in statue ma da toccare con mano. Non un’immagine da venerare, ma una massa informe di roccia, il dio stesso nella sua forma materiale.


Quello che si stava giocando sul piano del potere era più di una crisi politica: era una battaglia tra due concezioni del sacro. Roma non era pronta. L’arrivo di Eliogabalo aprì una faglia che avrebbe continuato a pulsare per secoli.

 


Il Dio che non si vede

 


La divinità portata a Roma da Eliogabalo era nota come El Gabal – letteralmente, il Dio della Montagna. Era la massima entità cultuale di Emesa, antica città siriaca (oggi Homs), dove la religione seguiva codici profondamente diversi da quelli greco-romani. Il suo simbolo non era una statua, né un mosaico, né una figura antropomorfa: era una pietra nera, di forma conica, probabilmente di origine meteoritica, custodita in un tempio sul colle sacro della città.


Herodiano, testimone diretto degli eventi, lo spiega con chiarezza: «Essi adorano una grande pietra di forma conica; si dice che sia caduta dal cielo. Questo è il loro dio. Guardandola, non si vede nulla di strano, ma essi credono che da essa emani qualcosa di divino» (Storia dell’Impero Romano dopo Marco Aurelio, V.3).

È difficile sopravvalutare quanto questo modo di rappresentare — o meglio, non rappresentare — la divinità fosse estraneo alla sensibilità religiosa romana. Il mondo romano accettava molti dei stranieri, ma esigeva immagini. Il sacro doveva essere reso visibile: in marmo, bronzo, pittura.


L’aniconismo radicale di El Gabal, invece, si ricollegava a un’antichissima tradizione semitica: quella del betilo.


Il termine baitylos (dal semitico bet el, “casa di Dio”) indicava una pietra sacra che non simboleggiava il dio, ma era il dio. Oggetti di culto aniconici, spesso conici o ovoidali, presenti in tutta la fascia siro-palestinese, dal Libano all’Arabia. Anche le stele del Dio di Betel (Genesi 28:18), le pietre nere di Emesa, il simulacro della Kaaba pre-islamica: tutte appartengono a questa grammatica del sacro senza volto.


Nel contesto siriaco, questa forma cultuale non era una stranezza. Era il centro del mondo. Il betilo non rappresentava l’invisibile: lo conteneva. Era l’oggetto in cui il cielo si faceva materia. Questa concezione, però, urtava frontalmente con la mentalità romana, per la quale l’invisibile non è venerabile se non si fa forma.


Quando Eliogabalo decise di portare la pietra sacra a Roma, non stava semplicemente importando una divinità orientale. Stava imponendo un paradigma cultuale alieno, in cui il divino non si manifesta per somiglianza, ma per presenza concreta. Il contrasto non poteva che esplodere.


Tuttavia, l’aniconismo non era una peculiarità esclusiva del mondo semitico. Esso riemerge, ciclicamente, in vari luoghi del bacino mediterraneo: la Magna Mater Cibele era venerata in Frigia sotto forma di una pietra nera, e persino il famoso Omphalos di Delfi — la pietra che segna il centro del mondo — non era un idolo, ma un oggetto di contatto tra uomo e dio.


Ma El Gabal era qualcosa di più radicale. Non era solo un dio solare. Era la montagna stessa che diventa dio. E la pietra, di origine celeste o vulcanica, era il suo corpo. Non c’erano riti che mimavano, non c’erano rappresentazioni. C’era solo la presenza muta del sacro, che Eliogabalo pretendeva di porre al centro dell’Impero.

Per Roma, tutto questo era profondamente destabilizzante. Il dio senza volto non parlava la lingua delle basiliche, delle statue equestri, dei templi a colonne. Era un dio che non si poteva controllare.


E come vedremo, fu proprio nel cuore della città, sul Palatino, che questa tensione divenne esplosiva.


 

Il culto del Sole sul Palatino


 

Una volta insediato sul trono, Eliogabalo intraprese quella che è stata, forse, la più audace riforma religiosa mai tentata da un imperatore romano. Non si limitò a portare con sé il betilo di El Gabal da Emesa: fece costruire un nuovo tempio sul Palatino, il cuore del potere imperiale, dove venne insediata la pietra nera come divinità centrale dello Stato. Questo edificio prese il nome di

Elagabalium, e secondo Cassio Dione (LXXX, 11), fu progettato per eclissare tutti gli altri culti ufficiali.


Il giovane imperatore si proclamò sommo sacerdote del Sole Invincibile, vestendo i paramenti sacri siriani — tuniche lunghe, corone ornate, danze rituali — del tutto estranei all’uso romano. In pubblico officiava i riti in prima persona, spesso ignorando il Senato e i tradizionali collegi sacerdotali. La sua intenzione era chiara: non creare un culto orientale accanto a quelli romani, ma soppiantarli con una religione universale centrata su un’unica divinità solare.


Le cerimonie avevano un tono spettacolare e perturbante. Il betilo veniva portato in processione su carri d’oro, trainati da cavalli bianchi, accompagnati da musiche siriane, incensi e danze. Herodiano riferisce che lo stesso imperatore, durante queste processioni, guidava i cavalli a ritroso, camminando all’indietro di fronte alla pietra, come atto di umiltà verso il dio.


Queste liturgie scioccarono i cittadini romani, più ancora dei noti eccessi privati attribuiti ad Eliogabalo. Per la prima volta, il centro cerimoniale dell’Impero non era più Giove Ottimo Massimo, né Marte, né Roma stessa ma un dio straniero, senza volto, adorato in una forma che

Roma non poteva comprendere né dominare.


Fu un corto circuito teologico e politico. In un mondo dove l’equilibrio tra religione e potere era regolato da un delicato patto non scritto, Eliogabalo ne rovesciava le regole, mettendo al centro dell’Impero non il diritto, ma il mistero. La sua visione — quella di una religione universale, fondata sulla luce solare e sulla pietra celeste — anticipava in parte ciò che avverrà più tardi con Aureliano e persino con Costantino. Ma era troppo presto.


Il clero tradizionale, il Senato e l’esercito non potevano accettare che un adolescente orientale, con abiti fluttuanti e gesti sacri incomprensibili, trasformasse Roma nel santuario di un culto straniero. In meno di quattro anni, l’astro di Eliogabalo si spense. Fu assassinato nel 222 d.C. dai pretoriani. Il suo corpo venne gettato nel Tevere. Il betilo fu rimosso dal Palatino e, secondo alcune fonti, riportato in Siria.


Ma il seme era stato gettato. E, come vedremo, la pietra non sarebbe scomparsa del tutto.


 

Un dio troppo potente per Roma


 

L’episodio di Eliogabalo non fu una semplice parentesi esotica nella storia dell’Impero. Fu un trauma. Un tentativo di rifondazione cultuale che andava ben oltre la dimensione religiosa. Imporre El Gabal al vertice del pantheon romano significava riscrivere l’intero equilibrio simbolico dell’Impero: non più Roma come fulcro dell’ordine divino, ma una montagna straniera, non rappresentabile, posta al centro del mondo.


Non è un caso che le fonti antiche, tutte ostili, abbiano cercato di ridurre l’intero regno di Eliogabalo a una sequenza di eccessi sessuali, effeminatezza e follia. Le biografie come l’Historia Augusta (in particolare il Libro di Eliogabalo) offrono un ritratto deliberatamente grottesco: banchetti sfrenati, orgie rituali, sacrifici umani, matrimoni sacrileghi. Ma è difficile stabilire quanto di tutto questo sia realtà e quanto sia propaganda postuma.


Il punto chiave, invece, emerge proprio da ciò che le fonti non possono ignorare: l’intervento sul piano cultuale. Per Roma, non era tanto scandalosa la condotta privata dell’imperatore — abituata com’era agli eccessi di Caligola o Nerone — quanto il tentativo di sovvertire il cuore simbolico del potere. Eliogabalo era un giovane capriccioso ma anche un sacerdote. E stava tentando una riforma radicale; un vero e proprio cambio di paradigma.


L’idea di un dio unico, universale, solare, che unifica e ingloba gli altri, sopravvisse al suo fondatore. Solo mezzo secolo dopo, nel 274 d.C., l’imperatore Aureliano istituirà ufficialmente il culto del Sol Invictus, costruendo un nuovo tempio sul Campo Marzio. Ma questa volta, senza la pietra. Senza la Siria. Senza lo scandalo.


Persino Costantino, nel suo lungo processo di avvicinamento al cristianesimo, conserverà — almeno per un periodo — l’ambiguità solare, coniando monete in onore del Sol Invictus. Quella linea invisibile che parte da Emesa, passa per il Palatino e giunge alla basilica costantiniana, racconta una lunga mutazione della teologia imperiale, che prende forma proprio con Eliogabalo.


Ma perché Roma non era pronta?


Probabilmente perché El Gabal non era un dio “adattabile”. Non aveva volto, né corpo, né mitologia accessibile ai romani. Era altro in ogni senso. E quella pietra — inerte, nera, muta — era un trauma semiotico, un oggetto che sfuggiva alla categorizzazione. Come adorare un’entità che non può essere raffigurata? Come inserirla in una liturgia che vive di gesti riconoscibili?


Il rifiuto non fu solo ideologico: fu anche iconografico. L’Impero non poteva sopportare un dio che non si faceva rappresentare. L’assenza di immagini rappresentava una provocazione. E forse anche per questo, il culto del Sol Invictus — pur ispirato a quello di El Gabal — venne successivamente ri-romanizzato, mitologizzato, visualizzato. Il trauma fu ricomposto, ma mai dimenticato.


Eliogabalo fallì. Ma il dio che portò a Roma non fu cancellato. Solo trasformato. L’Impero, nei decenni successivi, assorbirà le sue intuizioni più profonde: il Sole come principio ordinatore, la luce come simbolo universale, la montagna come centro sacrale. Ma lo farà a modo suo. Senza più pietre. Senza più sacerdoti adolescenti venuti dall’Oriente. Senza più nomi impronunciabili.


 

La pietra che non scompare


 

Il betilo di El Gabal scomparve dalle cronache dopo la morte di Eliogabalo ma non dalla storia.


Come spesso accade con gli oggetti sacri troppo potenti per essere distrutti, la pietra fu rimossa dal centro della scena, ma non fu cancellata dalla memoria. Le sue tracce, invisibili e persistenti, si moltiplicano come radici sotto il suolo.


Nel IV secolo, quando Costantino formalizzerà il cristianesimo come religione imperiale, il linguaggio della nuova fede sarà ancora profondamente imbevuto di immagini solari. Il Cristo Pantocratore sarà spesso raffigurato con una corona radiale, alla maniera del Sol Invictus. Alcuni studiosi, come André Grabar e Franz Cumont, hanno rilevato una linea diretta di continuità tra il culto solare imperiale e la teologia tardoantica, segno che quella rivoluzione simbolica, cominciata bruscamente con Eliogabalo, aveva lasciato il segno.


La pietra — in quanto forma sacra — continuerà a manifestarsi nei luoghi più insospettabili. Sotto forma di reliquie, omphaloi, menhir cristianizzati, meteoriti venerati in contesti islamici e persino in certi santuari cristiani del Medioevo, dove le pietre venivano incorporate in altari o conservate come testimonianze di epifanie. Il sacro aniconico, rimosso dalla scena ufficiale, si ricicla, si maschera, si traveste. Ma resta.


E poi ci sono i nomi. Tracce linguistiche che sopravvivono al tempo con una caparbietà sorprendente. La parola Gabal, o le sue varianti Gebal, Jebel, Gibel, appare in decine di toponimi nel

Mediterraneo: in Libano (dove Gebal è l’antico nome di Byblos), in Siria, in Sicilia, nelle Baleari. A volte si riduce a suffisso, altre volte è parte di un nome sacro. In certe lingue è sinonimo di monte, ma non sempre. Più spesso è memoria fossilizzata di un culto.


Il gesto di Eliogabalo — portare a Roma un dio privo di rappresentazione, manifestato in una pietra — può essere letto oggi come un esperimento estremo di risacralizzazione dello spazio. Non si trattava di imporre una nuova fede, ma di decolonizzare il culto, riportandolo al suo nocciolo indigeribile: la materia grezza, la luce pura, il monte che arde.


In un mondo dove la religione tende sempre a rassicurare, a spiegare, a ordinare, l’atto di non dare forma a un dio è dirompente. È un modo per riconoscere che il sacro non può essere posseduto, ma solo sfiorato.


Eliogabalo fu travolto da questa visione. Ma ciò che ha tentato — e che Roma ha rigettato — è forse la più potente lezione lasciata dal suo regno breve e tragico: che la divinità può essere più presente quando non si mostra, che la pietra può parlare anche senza la presenza di segni o incisioni.


In fondo, ogni cultura che ha conosciuto il sacro ha avuto, prima o poi, il suo betilo. Che fosse piovuto dal cielo, scolpito dal fuoco o trovato in cima a una montagna, ciò che contava non era la forma, ma la forza. E quella forza, ancora oggi, scorre sotto i nomi antichi, sotto i monti silenziosi, sotto le pietre che non smettono di ardere.

 

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